Cambiamo lo sguardo: la diagnosi non è una condanna

Una diagnosi fa paura, forse perché, culturalmente, siamo stati abituati a viverla come una sentenza, un’etichetta che definisce, delimita e riduce. Un’etichetta che, una volta attribuita, sembra oscurare tutto il resto. Molti genitori temono che, dopo una diagnosi, lo sguardo altrui -della scuola, dei parenti, degli amici- muti, alterando così non solo la percezione del proprio figlio, ma anche l’immagine di sé in quanto madre o padre. Tuttavia, è proprio in questo momento che può maturare un cambiamento di prospettiva: una diagnosi non costituisce una condanna, né rappresenta definizione definitiva. È, piuttosto, uno strumento, una bussola. E come ogni strumento di orientamento non ti blocca, ma ti orienta, ti guida; aiuta a individuare il percorso più adeguato, non soltanto per il bambino, ma per l’intero nucleo familiare. È tempo di modificare il nostro sguardo e di abbandonare l’idea che la neurodivergenza sia una condizione da correggere o “normalizzare”. Non si tratta di un difetto, bensì di un diverso modo di funzionare, apprendere e relazionarsi con il mondo. Il problema non risiede nella diagnosi in sé, ma nell’uso che se ne fa: quando questa viene ridotta a un’etichetta che precede la persona, quando il bambino viene osservato unicamente attraverso il filtro del suo “disturbo”, rischiamo di smarrire l’essenziale. Un bambino con una diagnosi non è il suo disturbo: è, prima di tutto, una persona con la propria storia, i propri pensieri, le proprie emozioni e i propri punti di forza. Ha il diritto di essere riconosciuto e valorizzato in quanto tale. Eppure, nel linguaggio quotidiano, si continua troppo spesso a sentire espressioni come è “dislessico”, è “ADHD”, è “autistico”, come se la diagnosi fosse l’unico elemento rilevante. Ma né lui né lei sono una sigla: sono individui, ciascuno con una propria identità, una propria storia, proprie potenzialità. La diversità, dunque, non è uno sbaglio, bensì una risorsa preziosa. È la dimostrazione che non esiste un unico modo corretto di essere, di apprendere, di crescere e di vivere. Il nostro compito, in quanto adulti, non è uniformare, ma accompagnare i bambini con ascolto, rispetto e strumenti adeguati affinché possano svilupparsi nella loro forma più autentica. Non dobbiamo temere la diagnosi, ma trovare il coraggio di guardare, ascoltare e agire, perché ogni bambino ha il diritto di sentirsi visto, accolto e valorizzato per ciò che realmente è. Non esiste un’età ideale per intervenire, ma vi sono segnali che non devono essere ignorati. Quando un genitore inizia a percepire che qualcosa, nello sviluppo o nel comportamento del proprio figlio, “non torna del tutto”, spesso si attivano reazioni emotive intense e, talvolta, contrastanti. Da un lato, può emergere una sincera preoccupazione, che conduce a una ricerca ansiosa di risposte o a un atteggiamento iperprotettivo. Dall’altro lato, si fa strada una paura più profonda: la paura di vedere davvero. Perché guardare con attenzione e ascoltare con autenticità può condurre a una verità che, forse, non ci si sente pronti ad accogliere. Così, talvolta, si tende a minimizzare, sperando che si tratti soltanto di una fase passeggera. E si rinvia. Si tratta di una reazione umana e comprensibile. Tuttavia, è importante chiarire un concetto: un sospetto non equivale a una diagnosi. È semplicemente un segnale, un campanello d’allarme che, se accolto con il giusto spirito, può rappresentare un’opportunità preziosa per intervenire in modo precoce e costruttivo. Ricevere una diagnosi non costituisce un fallimento, né rappresenta un punto di arrivo, ma piuttosto l’inizio di un percorso. Un cammino personalizzato, che può aiutare il bambino a conoscersi meglio, ad affrontare con maggiore consapevolezza le proprie sfide e a valorizzare i propri punti di forza, liberandosi da etichette e pregiudizi. Sono necessari interventi individualizzati, una didattica inclusiva che vada oltre i meri strumenti compensativi, e una cultura dell’accoglienza realmente disposta a riconoscere e valorizzare la cosiddetta “diversità”.

Dott.ssa Alice De Carlini

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Studio Clinico L'aquilone
Studio Clinico L'aquilone
Il Centro Clinico Studio “L’Aquilone” è specializzato in Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), si occupa di valutazione, potenziamento e recupero delle funzioni cognitive , applicando strumenti terapeutici riconosciuti quali la Metodologia Feuerstein e Tzuriel, e il trattamento della dislessia tramite il metodo CO.CLI.T.E. Lo Studio “L’Aquilone” nasce nel 1999 con l’obiettivo di fornire una risposta qualificata a specifiche problematiche poste dai genitori.

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